Nel 1976, nel suo libro “Calci, sputi e colpi di testa”, Paolo Sollier, attaccante del Perugia promosso in serie A e tra i primi calciatori politicizzati ed impegnati nel sociale, proponeva, come soluzione per restituire al calcio la sua natura sociale, una gestione diversa dei club, con la partecipazione dei tifosi ed un ruolo di primo piano per le istituzioni locali.
Scriveva Solllier: “Tu contesti questo calcio” mi dicono “ma cosa proponi? Come strutturare il baraccone? Come condurre le società calcistiche?” Certo non esistono magie per risolvere tutto subito, però si può ripulire qualche sentiero. Prima cosa basta con i presidenti mecenati che fanno disfano e distruggono a loro piacimento. La struttura di una società di calcio non può dipendere dagli umori e amori di un riccastro: la trasformazione in società per azioni è stato un passo importante, e a capo di questa società ci deve essere un tecnico, non un qualunque miliardario. Uno stipendiato che riceve un mandato e deve rendere conto a un consiglio di amministrazione. In questo consiglio dovrebbero esserci, oltre ai normali azionisti, i rappresentanti dei tifosi e degli enti locali. Sollier lo considera un primo passo: “Più in là la società di calcio potrebbe addirittura entrare nel bilancio del Comune, come succede per i teatri stabili (però funzionando un po’ meglio). A capo di queste società un funzionari o comunale, e i giocatori che diventano dipendenti dell’ente locale, risolvendo così il problema del “dopo”.” Una visione difficilmente realizzabile, ma dettata da motivazioni sociali: “Questo permetterebbe di ridurre gli assurdi guadagni dei calciatori professionisti, dando però in cambio una sistemazione ed una collocazione sociale. Inoltre, eviterebbe allo sport di diventare una palestra di qualunquismo ed individualismo, un’isola a parte.” Il cambiamento del mondo del calcio si sarebbe inserito in uno più generale: “Chiaro che queste trasformazioni non avverranno da sole, ma seguiranno una trasformazione della società.”